Assistenza e Tutela Consumatori, dal 2012 accanto ai contribuenti italiani PER TUTTI GLI ISCRITTI LA CONSULENZA E' GRATUITA

domenica 29 marzo 2020

CORONAVIRUS: LA TRASGRESSIONE ALLE MISURE DI ANTI-CONTAGIO È ILLECITO AMMINISTRATIVO, NON PIÙ PENALE


Il d.l. 25 marzo 2020, n. 19 (pubblicato sulla G.U. del 25 marzo 2020, n. 79 e in vigore dal 26 marzo) introduce, come emerge dalla rubrica, “Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19”.
Il Governo cerca così di fare ordine e chiarezza, nel rispetto del principio di legalità ex art. 25, comma 2, Cost. e dei corollari che da esso derivano (principi di tassatività, di determinatezza, ecc.), in relazione sia all’individuazione delle misure di contenimento e di contrasto alla diffusione del virus, che, in queste frenetiche settimane, sono state oggetto di numerosi provvedimenti emanati con fonti secondarie, sia - e soprattutto, per quanto qui rileva -, delle sanzioni conseguenti alla trasgressione di quelle misure.
Rispetto al precedente d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla l. marzo 2020, n. 13 (che viene espressamente abrogato, ad eccezione degli artt. 3, comma 6-bis, e 4, che però non riguardano profili sanzionatori), occorre segnalare da subito un’importante novità: il Governo ha abbandonato l’incriminazione ex art. 650 c.p. con riguardo alla trasgressione dei provvedimenti emanati dall’Autorità in favore di un illecito di tipo amministrativo.
Si tratta di una significativa marcia indietro rispetto all’impiego della sanzione penale, che, come si vedrà, ha un ambito applicativo molto circoscritto.
Procedendo con ordine:
  • l’art. 1 individua le “Misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19”. In primo luogo, si pone un limite temporale alle misure di contenimento, che possono essere adottate “per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020”, e con possibilità di modularne l'applicazione secondo l'andamento epidemiologico del virus.  Il comma 2 - lett. da a) sino a hh) – contempla, in maniera puntuale e dettagliata, le singole misure di contenimento, alla cui lettura facciamo rinvio; si tratta di un lungo elenco, che si compone di ventinove prescrizioni, le quali riproducono il contenuto di quelle che, sino ad ora, erano state individuate con atti emanati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri o dalle Regioni.
  • L’art. 2 disciplina l’“Attuazione delle misure di contenimento”. A seconda dell’ambito territoriale su cui sono destinate ad incidere (l’intero territorio nazionale o singole regioni), le misure indicate dall’art. 1 possono essere adottate con decreto emesso dal Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri ministri competenti per materia, ovvero dai presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero dal Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale.Ancora, i decreti in questioni possono essere adottati anche su proposta dei presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero del Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale, sentiti il Ministro della salute, il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri ministri competenti per materia.Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e con efficacia limitata fino a tale momento, si prevede inoltre che, in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute, le misure possono essere adottate dal Ministro della salute ai sensi dell'art. 32 l. 23 dicembre 1978, n. 833.Vengono fatti espressamente salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanati ai sensi del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, ovvero ai sensi dell'art. 32 l. 23 dicembre 1978, n. 833.

  • L’art. 3 disciplina le “Misure urgenti di carattere regionale o infraregionale”  Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e con efficacia limitata fino a tale momento, si prevede che “le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso”, possano “introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all'articolo 1, comma 2, esclusivamente nell'ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale”. Da segnalare che, per espressa previsione normativa, i Sindaci “non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l'emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1” (comma 2). La ratio di tali disposizioni è chiara, è va individuata nell’esigenza di indicare misure di contenimento che siano omogenee per tutto il territorio nazionale.

  • L’art. 4 – che maggiormente rileva in questa sede - è rubricato “Sanzioni e controlli”.  Come anticipato, la scelta del Governo è di prevedere un mero illecito amministrativo nel caso di violazione delle misure di contenimento indicate all’art. 2 (salvo un’eccezione, su cui si tornerà oltre), a differenza dell’art. 3, comma 4d.l. n. 6 del 2020, che puniva ai sensi dell’art. 650 c.p. il mancato rispetto delle predette misure, ciò che integra un’abolitio criminis dei fatti pregressi. Il comma 1, “salvo che il fatto costituisca reato”, punisce con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 “il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3”; se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l'utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzoLa norma, peraltro, precisa che “non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 c.p. o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3”.  Orbene, la volontà del legislatore: è chiara: la violazione delle misure di contenimento, puntualmente indicate dall’art. 1, comma 2, integra un mero illecito amministrativo e non la violazione dell’art. 650 c.p. Si tratta di una scelta opportuna e ragionevole.   L’arsenale delle sanzioni amministrative è articolato e nutrito: la sanzione amministrativa, infatti, è raddoppiata e quella accessoria è applicata nella misura massima nel caso di reiterata violazione della medesima disposizioneCon riferimento, poi, alla violazione delle misure di cui all’art. 1, comma 2, lett. i), m), p), u), v), z) e aa), si applica, in aggiunta, la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell'esercizio o dell'attività da 5 a 30 giorni; in questi casi, all'atto dell'accertamento della violazione, ove necessario per impedire la prosecuzione o la reiterazione della medesima, l'autorità procedente può disporre la chiusura provvisoria dell'attività o dell'esercizio per una durata non superiore a 5 giorni, periodo che viene scomputato dalla corrispondente sanzione accessoria definitivamente irrogata in sede di sua esecuzione. Quanto ai profili applicativi, per espressa previsione normativa, le violazioni amministrative sono accertate ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689; si applicano altresì i commi 1, 2 e 2.1 dell'art. 202 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, che prevedono il pagamento della sanzione in misura ridotta del 30%.
  • Il Prefetto e l’autorità regionale sono gli organi competenti per l’irrogazione delle sanzioni per le violazioni delle misure di cui, rispettivamente, all'art. 2, comma 1, ovvero dell’art. 3; ai relativi procedimenti si applica l'art. 103 d.l.17 marzo 2020, n. 18, che prevede la sospensione dei termini fin al 15 aprile 2020. Una notazione sui fatti pregressi, ossia quelli accertati vigente l’art. 3, comma 4d.l. n. 6 del 2020, che, come anticipato, puniva il mancato rispetto delle misure di contenimento ai sensi dell'articolo 650 c.p. Stante la trasformazione di tale trasgressione in mero illecito amministrativo, si è in presenza di un’ipotesi di abolitio criminis, ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p. I procedimenti penali eventualmente già iscritti, pertanto, non potranno che concludersi con una richiesta di archiviazione, con trasmissione atti all’autorità competente per l’irrogazione della sanzione amministrativa. Infatti, in maniera opportuna il comma 8 dell’art. 4 stabilisce che “le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà”; si dispone altresì l’applicabilità, in quanto compatibili, delle disposizioni degli artt. 101 e 102 d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, che, appunto, nel caso di trasformazione di un fatto da illecito penale a illecito amministrativo, disciplinano, rispettivamente, la revoca della sentenza penale di condanna (eventualità che non pare avrà alcuna applicazione pratica), e la trasmissione degli atti alla competente autorità amministrativa. Come si è anticipato, il Governo ha mantenuto la sanzione penale in un solo caso, correlato alla trasgressione della misura di cui all’art. 1, comma 2, lett. e), che prevede il “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus”.  In tal caso, “salvo che il fatto costituisca violazione dell'articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura è punita ai sensi dell'art. 260 r. d. n. 27 luglio 1934, n. 1265, recante “Testo unico delle leggi sanitarie”, che viene peraltro modificato dal comma 7 dell’art. 4: la pena originariamente prevista (arresto fino a sei mesi e ammenda da 40.000 e 800.000 lire) viene infatti inasprita, essendo ora comminato l'arresto da 3 mesi a 18 mesi e l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000. Il rinvio all’art. 260 – che punisce “chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo” - vale non solo quoad poenam, ma anche con riferimento alla configurazione dell’illecito penale, che, essendo modellato come mera contravvenzione, è punibile sia per colpa, sia per dolo. È fatta comunque salva, come detto, l’applicabilità dell’art. 452 c.p. o di più grave reato. Ciò significa che il soggetto in quarantena, positivo al virus, il quale si allontani da casa (salvo evidentemente i casi di forza maggiore o situazioni integranti una causa di giustificazione, quali, ad esempio, lo stato di necessità, la legittima difesa, ecc.) può rendersi responsabile, ricorrendone i presupposti del delitto di epidemia colposa, punito dall’art. 452 c.p. in relazione all’art. 438 c.p., o anche di epidemia dolosa ex art. 438 c.p. Infatti, a nostro avviso, nonostante l’epidemia sia già in atto, il delitto può essere realizzato – in forma dolosa o colposa – da chi, con la propria condotta, propaghi ulteriormente la diffusione del virus.


mercoledì 25 marzo 2020

LA DINAMICA DEL SINISTRO É INCERTA? SI APPLICA LA PRESUNZIONE DI CORRESPONSABILITÀ

Con la sentenza n. 9353 del 2019 la cassazione è intervenuta sul tema dello scontro tra veicoli, ribadendo che la presunzione di eguale concorso di colpa stabilita dall'art. 2054, comma 2 c.c. ha funzione sussidiaria, operando ogni qualvolta le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l'evento dannoso e di attribuire le effettive responsabilità del sinistro.
FATTO
P. P., danneggiato in un incidente stradale avvenuto in data 27/8/2015 sulla strada provinciale di Porto Ercole tra la moto da lui guidata ed un presunto (perché rimasto sconosciuto) veicolo bianco che invadendo la corsia di marcia del P. ne aveva determinato la perdita di controllo del mezzo e l'impatto con un guardrail, ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di Firenze, che, confermando la pronuncia di prime cure, ha applicato la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro, di cui all'art. 2054, comma 2, c.p.c.

L'applicazione della presunzione di pari responsabilità è stata disposta dalla Corte territoriale, all'esito di ben due perizie cinematiche, nell'impossibilità di addivenire ad una ricostruzione certa dei fatti di causa.

Il Giudice d'Appello, per quel che ancora rileva in questa sede, dato atto che, sulla scorta delle prove testimoniali acquisite, il veicolo antagonista aveva invaso la corsia di marcia del P., provocandone lo sbandamento e l'impatto con un gardrail, in assenza di elementi certi ed inconfutabili sulla dinamica del sinistro, ha ritenuto di applicare l'art. 2054, 2° co. c.c. in ottemperanza alla giurisprudenza, secondo la quale l'accertamento in concreto della responsabilità di uno dei due conducenti, nel caso di scontro tra veicoli, non esonera l'altro dall'onere di provare di essersi conformato alle norme sulla circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza.

Avverso la sentenza il P. propone ricorso per cassazione.

Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente solleva violazione e falsa applicazione dell'art. 2054, comma 2, c.c. in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e pone una questione di diritto: se l'art. 2054, comma 2, c.c. sia applicabile anche nel caso in cui vi sia stato, da parte dell'organo giudicante, un accertamento positivo sulla responsabilità di uno dei conducenti coinvolti nel sinistro e non vi sia alcuna certezza circa l'eventuale corresponsabilità del danneggiato.

Secondo il ricorrente, la presunzione di pari responsabilità non potrebbe applicarsi in casi siffatti.

Il motivo non è fondato in ragione della giurisprudenza di legittimità che fa del criterio di imputazione presuntiva della pari responsabilità di cui all'art. 2054, comma 2, c.c. un criterio residuale che si applica in tutti i casi in cui non è possibile stabilire l'esatta misura delle diverse responsabilità nella produzione del sinistro. La ratio dell'art. 2054, comma 2, c.c. è proprio quella di offrire un criterio fittizio di imputazione della responsabilità laddove non sia possibile pervenire ad una esatta ricostruzione dei fatti di causa.

Ciò che emerge con chiarezza nel caso in esame è proprio l'impossibilità di ricostruire con esattezza cosa sia effettivamente avvenuto, tanto che ben due CTU cinematiche non hanno consentito di sciogliere i dubbi.

In questa situazione di assoluta incertezza, il Giudice di merito ha correttamente applicato l'art. 2054, comma 2, c.c., non potendo avere rilevanza, perché afferente al mero campo delle ipotesi, privo di fattuale riscontro, che nell'eziologia dell'incidente sia certamente ravvisabile la responsabilità del conducente di uno dei veicoli coinvolti nel sinistro.

In ogni caso, anche laddove la responsabilità prevalente o esclusiva di uno dei due veicoli coinvolti fosse stata acclarata senza alcun ragionevole dubbio - il che si ripete non è dato affermare nel caso in esame - anche in tal caso il giudice non sarebbe esonerato dall'onere di accertare che il veicolo danneggiato si fosse attenuto al rispetto delle norme del codice della strada ed a quelle di comune prudenza.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere non superata la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro nel caso in cui sia accertata la colpa di uno dei conducenti

In ogni caso la ratio dell'art. 2054, comma 2, c.c. è proprio quella di fornire un criterio sussidiario in tutti i casi in cui l'accertamento delle condotte non consenta di giungere a conclusioni certe circa l'imputazione della responsabilità del sinistro.

VIDEOSORVEGLIANZA SUL LUOGO DI LAVORO: ILLEGITTIMA ANCHE SE C'È IL CONSENSO DEI LAVORATORI

Non è scriminante l’autorizzazione dei dipendenti all’installazione di sistemi di videosorveglianza in azienda, in quanto in ogni caso l’assenza di accordi sindacali o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro in merito, previsti per legge, fa sì che la condotta del datore di lavoro integri il reato di cui agli artt. 114 e 171 D.Lgs. n. 196 del 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e degli artt. 4, c.1, e 38 della L. n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori). È quanto stabilito dalla Cass. pen. sez. III, del 17 dicembre 2019, n. 50919. (13/01/2020)

PERMESSO A COSTRUIRE

Il permesso di costruire può essere rilasciato unicamente al proprietario dell'immobile o a chi ha a titolo per richiederlo e, quindi, il Comune ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando se egli sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o se, comunque, abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria. Lo stabilisce il Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 3 febbraio 2020, n. 865 (21/02/2020) 

ASSEGNO DI MANTENIMENTO: E' POSSIBILE CHIEDERE LA RESTITUZIONE

La Cassazione ha accolto il ricorso di un uomo che dal momento del divorzio, nel 1987, versava alle figlie 600.000 lire, poi salite a 800.000. In base agli accordi di separazione, sarebbe stato tenuto a farlo fino al termine degli studi universitari di entrambe, nate nel 1968 e nel 1970. L’uomo ha però continuato a pagare alla ex il mantenimento delle figlie anche dopo la laurea e le successive nozze, nonostante il ricorso ai tribunali ordinari e l'evidente raggiungimento dell'autosufficienza. Ora i giudici gli hanno dato ragione, disponendo anche la restituzione delle cifre indebitamente incassate dalla ex coniuge.
Niente più assegni di mantenimento a vita per i figli cresciuti e in grado di essere autosufficienti.
A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione che ha dato ragione a un padre, originario di Taranto, che chiedeva non solo di smettere di pagare la quota mensile alla ex per il mantenimento delle figlie ormai cresciute, e la restituzione di quanto versato “indebitamente” per anni.
I supremi giudici gli hanno dato ragione, con una sentenza che diventa di riferimento: Una sentenza storica perché in qualche modo stabilisce che esiste un'età oltre la quale non si deve più pagare un assegno di mantenimento ai figli, fatta salva l’eccezione in cui siano inabili.
Si tratta di una indicazione in linea con molti dei Paesi europei. In Francia e Niente più assegni di mantenimento a vita per i figli cresciuti e in grado di essere autosufficienti. A maggior ragione se sono sposati. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione che ha dato ragione a un padre, originario di Taranto, che chiedeva non solo di smettere di pagare la quota mensile alla ex per il mantenimento per le figlie ormai cresciute, ma persino la restituzione di quanto versato “indebitamente” per anni. I supremi giudici gli hanno dato ragione, con una sentenza che diventa di riferimento.
È una sentenza storica perché in qualche modo stabilisce che esistono un'età oltre la quale non si deve più pagare un assegno di mantenimento ai figli, fatta salva l’eccezione in cui siano inabili.
Si tratta di una indicazione in linea con molti dei Paesi europei.
In Francia e Spagna, per esempio è stata fissata un’età precisa, i 26 anni, dopo i quali decade il diritto all’assegno».