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mercoledì 20 maggio 2020

PREAVVISO DI FERMO AMMINISTRATIVO: L'IMPUGNATIVA È TESA ALL'ACCERTAMENTI NEGATIVO DEL CREDITO

L’impugnativa del preavviso di fermo, così come del fermo, è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria in tal modo avanzata ed è intesa ad ottenere, altresì, l’inibizione alla relativa iscrizione presso il pubblico registro automobilistico. A confermarlo è la Cassazione con sentenza 8 aprile 2020, n. 7756.



Il Giudice di Pace accoglieva la domanda di annullamento della cartella sopra indicata e rigettava la pretesa per le altre sette cartelle, esclusa quella soggetta alla giurisdizione tributaria, rilevando la già intervenuta pronuncia giurisdizionale nello stesso senso.

Avverso questa decisione ricorre per cassazione AR.

In particolare, con il primo motivo, AR prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 100324 c.p.c., poiché il Tribunale avrebbe errata mancando di considerare che era stata domandata anche la declaratoria di insussistenza del diritto di procedere esecutivamente sulla base delle cartelle annullate, nonché la declaratoria di nullità del preavviso di fermo di autoveicoli.

La Suprema Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

In particolare, i Giudici di legittimità hanno osservato che l’impugnativa del preavviso di fermo, così come del fermo, è azione di accertamento negativo della pretesa creditoria in tal modo avanzata.

La suddetta qualificazione della domanda comporta che, verificata al momento della decisione l’insussistenza delle ragioni di credito scrutinate, anche perché in parte negate nella sede giurisdizionale definitiva, era altresì interesse dell’attore ottenere la domanda e conseguente declaratoria di inibizione all’iscrizione del fermo, in cui si traduce la richiesta di annullamento del preavviso.

Tale declaratoria dovrà essere verificata relativamente ai crediti delibati, e non a quelli la cui delibazione è stata ritenuta soggetta ad altra giurisdizione.

L’interesse alla specifica pronuncia in parola sarebbe venuto meno solo in ipotesi di comunicata e verificata elisione del preavviso da parte del riscossore.

Esito del ricorso:

Cassa, con rinvio, la sentenza n. 2235/2016 del Tribunale di Roma, depositata l’1/12/2016.

venerdì 8 maggio 2020

Legittimo il rifiuto al ricezione della dichiarazione di riconoscimento del figlio di coppie omosessuali

Con la sentenza n. 8029 del 22 aprile 2020 la Suprema Corte di Cassazione ha negato ad una coppia omosessuale, composta da due madri unite in unione civile, la possibilità di riconoscere congiuntamente il figlio nato in Italia ma concepito all'estero tramite il ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa, portata avanti con l’apporto biologico di una sola delle due donne ma con il consenso dell’altra, in quanto in contrasto con le previsioni dell’art. 4 della legge n. 40/2004
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi:Cass. civ., sez. I, 3/ aprile 2020, n. 7668
Difformi:Trib Genova. sez. IV, decr. 8 novembre 2018
La vicenda trae origine dal ricorso di una coppia omosessuale al Tribunale di Pistoia contro il rifiuto opposto dall’ufficiale di Stato Civile al riconoscimento del minore nato in Italia quale figlio di entrambe le donne.
La coppia, composta da due donne unite in unione civile dal 2016, era ricorsa all’estero alla procreazione medicalmente assistita (PMA) di tipo eterologo, senza alcun apporto biologico da parte di una delle due (che aveva solo prestato il proprio consenso alla procedura); al termine della gestazione il bambino era stato poi partorito in Italia dall’altra donna.
Il Tribunale di Pistoia accoglieva la domanda della coppia e disponeva la rettifica dell’atto di nascita, con l’indicazione dei cognomi di entrambe le madri. La pronuncia veniva poi confermata anche dalla Corte d’Appello di Firenze, sulla base di una motivazione basata essenzialmente su un bilanciamento di principi di pari rango costituzionale: da un lato il diritto del concepito ad una genitorialità completa ed al mantenimento dello status filiationis (corrispondente al complessivo esito dell’assunzione di responsabilità da parte di entrambi i genitori e della procreazione assistita di uno di essi), dall’altro lato il diritto della coppia omosessuale legata da un’unione civile a dispiegare in tale unione la propria personalità anche attraverso un progetto di genitorialità condivisa.
La Corte di Cassazione – adita dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Pistoia – non ha condiviso l’interpretazione data dalla Corte d’Appello alla legge n. 40/2004 secondo cui il ricorso a tecniche di PMA da parte di coppie dello stesso sesso, in violazione dell’art. 5 della legge stessa comporterebbe esclusivamente l’applicazione della sanzione amministrativa comminata dall’art. 12 comma 2 a carico di chi ne abbia fatto uso, ma non escluderebbe l’operatività dell’art. 8, in virtù del quale il minore nato potrebbe acquistare lo stato di figlio riconosciuto non solo del genitore che lo ha messo al mondo, ma anche di quello che, pur non avendo fornito alcun apporto biologico, sia stato parte integrante del progetto di assunzione della responsabilità genitoriale, per aver prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche.
Nella complessa motivazione della sentenza in commento, la Corte di Cassazione richiama le scelte di fondo del legislatore sottese alla disciplina della PMA con la legge n. 40/2004, consistite nella esclusione del ricorso a tecniche di tipo eterologo (art. 4) e nell’individuazione di precisi requisiti soggettivi ed oggettivi per l’accesso alle altre tecniche (artt. 5-6-10), esaminandone analiticamente il contenuto.
Il primo divieto (il ricorso a tecniche di tipo eterologo previsto dall'art. 4 della legge di cui sopra) originariamente espresso in termini assoluti è stato parzialmente temperato dalle sentenze della Corte Costituzionale nn. 162/2014 e 96/2015, che hanno autorizzato l’accesso a tali procedure anche alle coppie alle quali sia stata diagnostica una patologia causa di sterilità o di infertilità assolute ed irreversibili ed alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili.
Invariati sono rimasti invece i principi stabiliti agli artt. 5-6 e 10 secondo i quali l’accesso alle tecniche di PMA è consentito soltanto alle coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi e consenzienti all’intervento, da effettuarsi esclusivamente presso strutture pubbliche o private a ciò autorizzate.
La Corte di Cassazione riconosce che, per effetto delle citate sentenze della Consulta, essendosi ammesso in casi specifici il ricorso a tecniche di tipo eterologo, sono state introdotte nel nostro ordinamento ipotesi di genitorialità svincolate dal rapporto biologico con il nato, aprendo così la strada alla possibilità – molto dibattuta - di riconoscere il rapporto di filiazione anche nei confronti di coppie che abbiano fatto ricorso a tali tecniche non perché affette da sterilità, infertilità patologiche o malattie genetiche trasmissibili, ma perché fisiologicamente incapaci di generare per l’età avanzata o per difetto di complementarietà biologica (come nel caso delle coppie omosessuali).
Nella sentenza in commento i Giudici nomofilattici proseguono l'esame della giurisprudenza e del quadro normativo sotteso alla soluzione del caso di specie ricordando che la Corte Costituzionale è tornata sul tema con la recente sentenza n. 221/2019 con la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzione degli artt. 5 e 12 della legge n. 40/2004 nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di PMA, escludendo la possibilità di un ricorso generalizzato a dette tecniche per soddisfare le aspirazioni genitoriali delle coppie omosessuali. La Corte Costituzionale ha precisato che le citate sentenze nn. 162/2014 e 96/2015, pur ammettendo il ricorso a tali tecniche come rimedio alla infertilità, alla sterilità o a malattie genetiche, hanno lasciato inalterato l’impianto generale della legge n. 40/2004, allo scopo di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di un padre e di una madre. Estendere tali tecniche alle coppie omosessuali comporterebbe la sconfessione di tali principi, atteso che l’infertilità fisiologica di una coppia omosessuale non è omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive.
In definitiva per la Corte di Cassazione i limiti imposti dalla legge n. 40/2004 rimangono validi ed attuali e non possono essere superati neppure dalla tutela riconosciuta dal legislatore alle unioni civili con la legge n. 76/2016: il riconoscimento ormai ampiamente diffuso nella coscienza sociale della capacità delle coppie omosessuali di accogliere, crescere ed educare figli, “non implica infatti lo sganciamento della filiazione dal dato biologico”. Tanto ciò è vero che la legge sulle unioni civili n. 76/2016 richiama unicamente la disciplina dell’adozione (art. 1 comma 20), ma non quella della PMA.
Questa posizione non viene ritenuta dalla Corte in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU, la quale ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla PMA finalità esclusivamente terapeutiche riservando il ricorso a tali tecniche alle coppie eterosessuali sterili, atteso che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali in Europa vi sono diversità di vedute (cfr. Corte EDU, sent. 15/3/2012, Gas e Dubois c. Francia e 3/11/2011, S.H. c. Austria).
La Corte osserva che nel caso in esame non è in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale, nè l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (sul punto, cfr. Cass. SS.UU., 8/05/2019, 12193).
Sulla base di tale motivazione, la Corte ha accolto i motivi 2 e 3 di ricorso concludendo che “il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con l’art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004 e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte della coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forma di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto”.
E’ dunque legittimo il rifiuto opposto dall’Ufficiale di Stato civile alla ricezione della dichiarazione di riconoscimento del minore come figlio naturale delle due donne, trovando tale provvedimento giustificazione nel disposto dell’art. 42 del D.P.R. n. 396 del 2000, che subordina il riconoscimento alla dimostrazione dell’insussistenza di motivi ostativi legalmente previsti, quale nel caso di specie è costituito dalla disciplina legale della PMA.